“I treni di Fernando” di Augusto Monachesi

Posted by on May 23rd, 2013 and filed under Recensioni. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0. Both comments and pings are currently closed.

Credo che sia opportuno fare innanzitutto un inquadramento storico-letterario, come sempre faccio quando mi appresto a relazionare su un libro.

Tutti i libri di narrativa, a partire dal 1945, fanno parte dell’epoca postmoderna. Uno studio filologico su tale libro mi ha consentito di catalogarlo come romanzo a sfondo sociale che può essere a carattere intimistico oppure un romanzo cosiddetto ambientale o di costume. Questo è fuor di dubbio di carattere ambientale e contiene molti elementi della corrente naturalista francese che ebbe origine nella seconda metà dell’Ottocento, il cui capostipite fu Emile Zola. A questo punto vale la pena di dire qualcosa su questo grande autore che apportò una rivoluzione nella letteratura. Egli, dopo un’infanzia e un’adolescenza trascorsa in ristrettezze economiche, si accostò alla sfera degli scrittori e artisti francesi dopo aver trovato un lavoro alla casa editrice Hachette come responsabile dell’uff. pubblicità. Ebbe modo così di documentarsi sul positivismo che allora era in voga e volle trasferire nel romanzo il criterio positivista secondo cui l’ambiente, cioè il contesto in cui si vive regola l’azione dell’uomo.
Scrisse 20 libri sulla stessa tematica “I Rougon-Macquart, storia naturale e sociale di una famiglia sotto il Secondo Impero” dove traccia la storia di una società dedita al vizio, dimentica delle sofferenze degli umili. Le sue accuse al perbenismo fecero breccia e da allora in poi, anche da noi si affermò la tendenza a rivolgere lo sguardo alla gente comune per cogliere il vero senso della vita.
Questo genere di romanzo poi attinge il massimo rigore analitico e documentario con Gustave Flaubert, nella cui opera si afferma quel canone tipico del naturalismo che è detto dell’”impersonalità”. La narrazione impersonale insomma non prevede più il narratore che interviene talora in prima persona a commentare le azioni dei protagonisti, introducendo proprie riflessioni o rivolgendosi direttamente ai lettori (come avviene, per esempio, nel modello manzoniano). Il narratore naturalista infatti aspira a dare della realtà una rappresentazione obiettiva, spassionata, “scientifica”, attenendosi il più possibile ai “fatti che parlano da sé”. Inoltre mentre lo scrittore romantico aveva dato voce a personaggi “eroici”, di eccezionale sensibilità e levatura, il romanziere naturalista fissa la sua attenzione sulla realtà quotidiana, e spesso su quella mediocre dei piccolo-borghesi, delle persone qualunque.
I principi del Naturalismo furono enunciati da Emile Zola nel saggio Il Romanzo Sperimentale del 1880: «l’ opera letteraria deve essere uno studio scientifico, una osservazione distaccata e obiettiva dei fatti comportamentali finalizzata alla loro impersonale e minuta descrizione.»
In sostanza, scelto un argomento sulla base di fatti personalmente osservati, lo scrittore collocherà i suoi personaggi all’ interno di situazioni diverse, sottoponendolo a una serie di prove al fine di studiare e mostrare come agiscono sull’ uomo i condizionamenti biologici e ambientali. Nel libro “I treni di Fernando” il caseggiato e le stazioni altro non sono che la rappresentazione di un mondo piccolo borghese nel suo vivere quotidiano, quindi riferibile agli abitanti di periferia e alle allegre brigate di cortile.
Il libro, quindi fa parte di quella letteratura vicina al modo di sentire degli uomini comuni, alla quotidianità della condizione presente della società per cui questo genere di romanzo consacra il mondo umile a dignità letteraria. I personaggi sono collocati in un contesto, accuratamente descritto e analizzato, che influenza e condiziona le loro azioni.
Questo romanzo, insomma, è un insieme di cronache sociali che non presentano un eroe protagonista, ma un insieme di personaggi che esprimono la mentalità degli ambienti cui appartengono.
In questo caso Augusto rappresenta, attraverso gli individui (Fernando, Peppe, Teresa, Betania, Lucio, Enea, Mariolina ecc.) le capacità innovatrici della società borghese. Nella prima parte gli oggetti sono pezzi di vita come gli occhiali da sole, le buste della spesa, l’uso della lacca, ago e filo ecc., costituiscono il simbolo delle donne borghesi. Erano infatti le donne a custodirli, ad avere con essi un rapporto preferenziale, fatto di complicità e di amore. Proprio il bisogno di rappresentare direttamente storie di vita vissuta in prima persona, sia dagli scrittori sia dai lettori, fu adottato un linguaggio tendenzialmente chiaro e comunicativo.
Nella valutazione critica un romanzo si definisce di stampo naturalista quando ha ben distinti alcuni elementi, per esempio:
1) I soggetti devono essere reali e inseriti nel proprio contesto ambientale;
Da pag. 9 de “I treni di Fernando”
“Fuori dall’unica vetrina una targa di lamiera arrugginita indica “vini e olii”. Un grande tappo di birra Peroni fa da insegna al locale. L’interno è piccolo, pieno di fumo e odoroso di vino e di muffa. La signora Ada serve da bere, mentre il marito, inginocchiato a terra, sistema le bottiglie con la testa dentro al frigo.
La signora Ada è una bella donna, troppo forse per un pubblico di vecchi avvinazzati. E lo è anche per quel marito a cui pare abbiano mozzato la testa.
Porta avanti e indietro litri, mezzi litri e tristi quartini di vino sfuso. Macina chilometri districandosi tra volgari avances e qualche mano lunga dei suoi clienti. Ma non si lamenta la signora Ada, perché quelli sono i suoi clienti. E perché comunque quel marito, con la testa sempre infilata da qualche parte, non si accorge mai di nulla. Lui non ha nulla da ridire.
Tutti i pomeriggi un uomo si affaccia sullo schermo di fumo della porta con aggrappato al braccio un bambino. Alla vista del bimbo Ada s’illumina come se nel locale filtrasse un raggio di sole dopo secoli di nebbia.
Quella piccola creatura fragile e diafana è la luce dei suoi occhi. È il sapone con cui lavare l’anima dal fango di quel buco. Ed ha proprio le guance morbide e gli occhi grandi del bimbo che avrebbe voluto tenere tra le braccia, baciare, accarezzare. Quel bimbo che non ha avuto, forse per sua colpa o forse per colpa del marito, che per la vergogna continua ad infilare la testa in qualche posto.
Così riempie svelta un bicchiere di bianco e lo lascia lì, poi gira attorno al muro altissimo del bancone e gli corre incontro.
Il bimbo rimane fermo e si abbandona felice alla piena che avanza e che tra poco lo travolgerà. È la piena dell’Ada, che protende verso di lui le braccia carnose e tonde come tentacoli; che posa le mani fresche sulle gote avvampate del bambino, senza spegnerne il fuoco; che infine appoggia le labbra morbide e lo stordisce con lo scrocchio sonoro di un bacio.
Il bambino strizza gli occhi. Quando li riapre, già mezzo ubriaco e in preda ad un’eccitazione crescente e incontrollata, scopre un panorama di seni voluttuosi e inquieti che la scollatura del grembiule non riesce a contenere. I seni danzano inseguendo la gioia della signora Ada. Si rincorrono l’un l’altro sfregando. Il bambino, ne è certo, una pentola piena d’oro giace lì giù, proprio in mezzo a quella valle.
Forse c’è anche qualche parola, sicuramente un complimento, tra i sorrisi che Ada regala al fanciullo. Ma se c’è lui non se ne accorge. E proprio quando l’eccitazione diventa incontenibile, lei si ritira e ritorna al suo lavoro.
Il corpo del bimbo però continua a fremere, attraversato da capo a piedi da un formicolio elettrico. Lui vorrebbe fare qualcosa, ma non sa se per terminare o per prolungare quella sensazione, bella e brutta al tempo stesso. Così, conteso tra due forze troppo prepotenti per la sua innocenza, riesce solo a produrre impercettibili saltelli e isterici gridolini.
Dentro di sé c’è un fuoco che arde e il cuore martella forte nelle tempie. Da fuori, invece, arriva un’eco di vociacce che biascicano oscenità irripetibili.
L’uomo appoggiato al bancone finisce il suo bicchiere, si volta, richiama suo figlio ed esce.”
 
Poiché nel libro viene evidenziata la vita di cortile, vorrei richiamare l’attenzione su questo aspetto che oggi va scomparendo tenendo conto dei tempi e dei ritmi della vita di città, ma che in alcune borgate, ancora esiste.
Il cortile è una microsocietà, è il luogo di incontro e di scambio che unisce le case private alla strada, in cui possono entrare ospiti, venditori ambulanti e questuanti, e tutti troveranno nel cortile qualcuno disposto a dargli retta.
Il cortile è il luogo in cui i bambini imparano l’affetto, il rispetto, la convivenza, la mutua solidarietà. È il luogo in cui la famiglia si allarga agli altri, li accoglie e viene accolta. È lo spazio della condivisione dei discorsi, dei giochi e delle cose, che sono di qualcuno ma mai in modo esclusivo e privato. È l’ambiente dove gli anziani vivono assieme ai figli e ai nipoti, raccontando loro vecchie storie, dove possono riposare quando ne hanno bisogno. È là che si frequentano gli amici e se ne conoscono di nuovi.
2) Il narratore è un osservatore dell’animo umano;
Da pag. 107 de “I treni di Fernando”
“Peppe non ha potuto modificare i suoi impegni quotidiani. Non ha potere sul rigido calendario condominiale, al quale lui stesso spesso si richiama. L’atteggiamento e l’umore con cui vi adempie, quelli sì. Quelli sono cambiati, profondamente.
Da tempo la sua giornata ha inizio senza più attendere l’arrivo di Fernando. Tuttavia, la sua presenza solitaria all’interno dello stabile continua ad apparire un’anomalia.
Quello che salta all’occhio, anche al più distratto dei condomini, è l’assenza assoluta di voglia di fare in lui. La mancanza di un qualsiasi entusiasmo.
Peppe è sempre stato per tutti un treno, una ruspa. Chiamato il marchisciano, per la sua laboriosità, intraprendenza, oltre che per l’attaccamento al denaro. Ma a guardarlo ora poltrire pigro nella guardiola, lì seduto dietro la scrivania piena di fogli sparsi, o fare le pulizie con una flemma fastidiosa, fa pensare che non si tratti della stessa persona.
A chi gli chiede come va, cosa gli sia successo, risponde che è il caldo, l’umidità, lo smog. Dice che non si respira. A se stesso invece risponde che sicuramente è il caldo, l’umidità e lo smog. Si dice che non si respira.
Si rifiuta di associare l’apatia, quel mattone sullo stomaco che rende un’impresa anche il minimo movimento, con le nuove abitudini di Fernando. Con la sua assenza. Ma quale altra motivazione ha da darsi? S’inganna consapevolmente, e quando quei due passano lì davanti, rumorosi e felici, gira la testa dalla parte opposta e sputa per terra.
Peppe comprende il dolore, quello fisico. Non riesce a concepire il male. Rifiuta anche l’idea stessa di stare male. Di soffrire per un dolore che non sia un mal d’ossa, un’unghia incarnita, un mal di schiena, un dolore, insomma. Il male dell’anima, soffrire per un pensiero che s’incastra nella testa, contro ogni volontà di ricacciarlo via, è una condizione che non può e non deve più appartenergli.
Era successo tanto tempo fa e non deve più appartenergli. Era successo quando ha dovuto accettare l’idea che appresso a lui non ci sarebbe stato nessuno, che Marina non gli avrebbe dato quel figlio che significava e giustificava i suoi sacrifici. I sacrifici di tutta una vita. Perché una vita che senso ha senza i sacrifici, e i sacrifici si fanno per i figli.
Era successo, allora, tempo fa. Un male oscuro si era impossessato di lui. Gli aveva tolto la forza dalle braccia, dalle gambe, la voglia di respirare. Era sparito l’amore per la terra, per il sole.
Ma alla fine aveva ricacciato via quel male da solo. Come sempre, con fatica e con determinazione. Si era concentrato su tutto ciò che era vero, reale, tangibile, concreto. Aveva ricacciato indietro tutto il resto. Tutto ciò che non aveva consistenza, peso, prezzo. Aveva fatto anche dell’altro, ma non ne conserva più la memoria. E un po’ alla volta, piano, piano, anche quel male era sparito. Se ne era uscito da lui. Era già accaduto allora, non c’è ragione che non accadesse ora.
Forse è solo troppo presto per capire davvero cosa lo fa star male. Perciò è difficile, perfino inutile, lottare contro quel morso che stringe alla bocca dello stomaco. Che gli disegna una smorfia agli angoli della bocca. Una strana smorfia, una specie di sorriso carico di morte, un peso insostenibile che gli fa cadere la testa in avanti.
Ma l’orologio alle sue spalle segna i tempi del calendario condominiale. Impietoso, indifferente ai sentimenti di Peppe, come vorrebbe esserlo lui. Ore sette, seconda scala: spazzare e lavare. Avanti Peppe!
Da solo. Più che solo. Perso. Peppe spazza le scale discendendo i gradini uno ad uno. Perso, più che solo, nello stesso punto esatto dove prima spazzava ora passa lo straccio, un gradino dopo l’altro, discendendoli uno ad uno.
Non deve fare attenzione a nulla, non ha bisogno di sincronizzare i suoi movimenti, non c’è il pericolo di urtarsi di inciampare con nessuno. È da solo e non parla più. E quando il solito bambino ritardatario apre la porta e si lancia come una furia sul pianerottolo, Peppe non alza neanche la testa. Gettando il bambino in un panico peggiore del rimprovero.
Ha ridotto al minimo indispensabile anche i lavori extra. Da sempre sono il suo forte e la sua fortuna. Ma gli manca la voglia, e soprattutto gli manca una motivazione. Perciò si limita a svolgere quelli inderogabili, quelli richiestogli dai condomini ai quali non è consentito dire di no. Per gli altri si limita a promesse. Vaghe promesse che non intende onorare.
Le ore passano lente e le giornate si fanno ogni giorno più dure e più lunghe.
E la sera arriva sempre un po’ più tardi. Peppe l’aspetta con ansia. Seduto in guardiola l’aspetta sfogliando meccanicamente una rivista presa a caso tra quelle rimaste nella posta.
Gira le pagine senza leggere, e non smette di sfogliare neanche quando alza la testa e guarda da un’altra parte. Quando guarda l’orologio alla parete o verso la porta mezza aperta che da’ nel suo appartamento.
Guarda prima l’uno e poi l’altra e subito dopo si domanda che ci guarda a fare. Sono entrambi fotografie senza senso: l’orologio che pare fermo, o meglio girare a vuoto, o girare senza un perché, segna un tempo che non gli interessa; l’interno dell’appartamento che non gli procura alcuna attrazione, come al solito illuminato dai bagliori del tubo catodico e risuonante dell’eco di risate finte.
Sconsolato, ritorna con lo sguardo spento e vuoto alle pagine indistinte della rivista.”
L’autore ha rivolto lo sguardo all’esterno, all’ambiente circostante, riuscendo a conciliare i due aspetti interiore-esteriore, e attraverso i personaggi, tocca i più svariati argomenti che ne impreziosiscono la trama: dalla riflessione sui temi sociali che riguardano la vita della metropoli a quelle sulla famiglia e sull’amicizia.
3) la narrazione deve essere meticolosa, priva di effusioni sentimentali e attenta ad adottare il linguaggio dei personaggi.
Da pag. 224 de “I treni di Fernando”
“Terminata la sua prima impegnativa giornata di lavoro, Fernando fa ritorno a casa. Circa a metà strada tra la bottega e il civico 48, c’è il giornalaio. Il suo fornitore unico delle figurine dei calciatori. La sua bibbia.
Il negozietto di una sola vetrina sta lì da sempre, almeno da quando lui riesce a ricordare. Soltanto che ora al posto del vecchio proprietario c’è suo figlio. Questi sta giusto per abbassare la serranda.
Fernando si ferma:
– Dove te ne vai? – gli domanda il giornalaio.
– A casa, so’ stanco.
– Eh sì! T’ho visto oggi che facevi avanti e indietro con certe buste. Ma che fai?
– Lavoro! Lavoro al fornaio e faccio le consegne a casa. – risponde con orgoglio e contento di poter essere orgoglioso di sé.
I due si guardano come se pensassero la stessa cosa. Dopo un breve silenzio Fernando avanza timidamente una proposta al giornalaio. I due rientrano in negozio e in pochi minuti trovano l’accordo: Fernando promuoverà presso i suoi clienti l’acquisto e la consegna di giornali a domicilio. La remunerazione consiste nella fornitura gratuita del mensile La Roma, il giornale ufficiale della società di calcio. Nonché di tutti i supplementi e allegati variamente pubblicati, gratuiti o a pagamento, riguardanti la squadra giallo-rossa o uno qualsiasi dei suoi giocatori. Patto stucco!
Quando esce dal giornalaio, il velo di stanchezza che offuscava il suo viso è sparito. Al suo posto un accenno di sorriso gli regala un’aria serena. Chi lo conosce, tra quelli che incontra per la strada, gli sorride. Un po’ perché è lui a farlo per primo, un po’ perché non è facile vederlo così aperto e disteso.
Entra nel bar Amici e si dirige al bancone. Il barista domanda se vuole dell’acqua. Lui, per tutta risposta, sbatte una banconota da cinque euro sul bancone.
– Eh, ‘mbè? Co’ queste che ce devo fa’? – domanda il barista perplesso.
Fernando si guarda attorno non sapendo cosa chiedere.
Dalla cassa, la signora Amici segue la scena curiosa. Più perplessa del suo barista. Anche lei si sforza di interpretare cosa voglia il ragazzo e prende ad elencare con la sua vocetta cantilenante:
– Fernando, vuoi un cappuccino? Oppure, un succo di frutta? Vuoi un tè?
Fernando la guarda con un certo disgusto. Fruga con lo sguardo alle spalle del barista, tra i macchinari e lo scaffale dei liquori. Infine esclama:
– Fammi un caffè!
La signora Amici scuote la testa. Il barista sospira sconsolato e si prepara a mettere il caffè in macchina.
Ma Fernando non è convinto. Caffè? Troppo banale, pensa. Si guarda ancora un po’ attorno: nessuno a quell’ora beve caffè. Osserva invece l’omone al suo fianco. È uno straniero. Un operaio dell’Est con i vestiti imbrattati di calce. Tracanna della birra dalla bottiglia e parla sguaiatamente con un amico. Fernando esclama all’improvviso:
– No! Niente caffè! Una birra!
– Eh che cazzo Ferna’! – sbotta il barista, che già aveva avviato la macchina.
– Oh, ma che vòi! – gli ribatte lui.
La signora Amici congiunge le mani e guarda verso il cielo. Il barista stappa la bottiglia fa per versarla nel bicchiere. Fernando lo frena di nuovo:
– No! Lasciala lì.
Il ragazzo posa la birra sul bancone. Lui la piglia e tira una sorsata proprio come ha visto fare all’operaio.
La sua bocca viene investita, dapprima da una piacevole sensazione di freschezza, poi, dal pizzicorio della bevanda gassata. Ma subito appresso un amaro sgradevole gli fa fare una smorfia e torcere il capo. Tossisce e per poco non si strozza.
Il barista e la signora Amici lo fissano con aria inquisitoria. Fernando si carica e fa un altro sorso. Più accorto. Cercando di nascondere il disgusto. Ingoia. Poi riposa la bottiglia sul bancone e tossicchiando domanda al barista:
– Quant’è?
– Prego, si accomodi alla cassa. – risponde lui, algido.
Fernando va alla cassa:
– Una birra.
– Mah va là, fijolo, lascia star.
– Quant’è! – insiste quasi arrabbiato.
La signora Amici prende i soldi, da’ il resto e, quando è uscito, si dispera come se lo sapesse un assassino.”
Come sempre accade quando mi trovo a valutare un libro, ho fatto ricorso alla teoria di Young che nella tipologia dello scrittore distingue un atteggiamento introverso, da un atteggiamento estroverso da cui deriva il concetto individuale dell’esistenza. Colui che scrive è uno che pensa in modo soggettivo oppure uno che pensa in modo indirizzato.
Il primo è un soggetto che si ripiega su se stesso, il secondo è un soggetto che annulla se stesso per rivolgere il suo sguardo alla sfera esterna.
Il pensiero soggettivo si distingue da quello indirizzato in quanto nel primo caso il protagonista è il soggetto, nel secondo è l’oggetto.
La sensazione che si ricava, dalla lettura di questo libro è il risentire un’eco di qualcosa che ha fatto parte della nostra vita, specialmente per noi che viviamo in periferia, come dei riscontri interiori che suscitano intense emozioni e che offrono diverse chiavi di lettura.
Ritornando quindi al libro che stiamo esaminando, troviamo tutti i principi dettati dal Zola. Il vero messaggio di questo libro, presentato con un titolo già di per sé accattivante perché insolito è il calore umano della vita di periferia che costituisce una realtà di funzioni senza splendore, senza colore, e il luogo dell’assenza di qualità o della carenza di servizi, del degrado, dell’insicurezza.
A questo punto, il libro dà l’opportunità di parlare invece della periferia come risorsa. Roma oggi è formata da un territorio extra- urbano che cerca disperatamente di diventare capitale, ospitando 1/3 degli abitanti complessivi: nel linguaggio burocratico questi territori vengono definiti “quadranti urbani privi di funzioni pregiate”, carenti in librerie, auditori, teatri, ma certamente non privi di popolazione. E’ proprio da qui che la periferia deve ripartire, innescando un processo di legittimazione identitaria dal basso, che riafferma nuova concezione centro-periferia: due poli che non si negano l’una con l’altro, ma vivono in uno stato di simbiosi vitale e necessaria. Tale processo, va promosso con un atteggiamento multiculturale in cui le persone si sentano veramente cittadini dello stesso mondo.
La materia importante di questo libro, quindi, è di carattere sociale che crea e domina tutta la vicenda, ambientata nell’hinterland romano, un contesto il cui tessuto offre una vasta materia di riflessione su temi di interesse collettivo.
Considerati gli elementi interni al testo, si può ben dire quindi che l’autore esce dalla gabbia dell’io per immedesimarsi in una problematica della storia che tocca un’intera categoria, in questo caso rappresentata dai personaggi.
Con linguaggio fluido e allo stesso tempo colorito, Augusto ha  composto un libro che si legge tutto d’un fiato. Denotazione essenziale della forma è proprio il linguaggio descrittivo con l’intento di rendere la realtà leggibile, visiva.
E’ insomma un libro chiaro, si capisce senza il sussidio di filtri letterari, la globalità della narrazione tende all’essenzialità.
 
Livia De Pietro                                                                                                              Roma 11/02/2011

Comments are closed

È vietato l'uso delle immagini e dei testi non autorizzato.
© 2016 Associazione Akkuaria
Associazione Akkuaria Via Dalmazia 6 - 95127 Catania - cell 3394001417
Registrata Ufficio Atti Civili di Catania il 3 maggio 2001 al n.ro 6010-3 - C.F. 93109960877
scrivi a: veraambra@akkuaria.com