La processione

Posted by on Nov 2nd, 2013 and filed under Cultura, News. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0. Both comments and pings are currently closed.

Non se ne fanno più. Di processioni voglio dire.

E non intendo quelle famose del nostro sud che richiamano folle di turisti o quelle spagnole che ancora oggi alimentano tutta un’industria di ricami in oro su seta o velluto per le vesti delle statue di Santi, Madonne o quant’altro: parlo di quelle delle parrocchie normali, che una volta accompagnavano la festa del Santo patrono protettore.

Oddio, qualche sacerdote ancora ci prova, ma sono cose, diciamo, così artigianali che si limitano al radunare in un pomeriggio rigorosamente feriale i ragazzini del Catechismo, alcune catechista disperate e un po’ scarmigliate nell’affanno di dare qualche ordine alla fila dei piccoli, alcune mamme (quelle che non lavorano, e sono ormai poche), che non si fidano del proprio rampollo o della catechista preposta a sorvegliarlo, e le quattro o cinque pie donne sulla cui presenza puoi sempre contare qualunque sia l’evento che abbia luogo.

 Il prete è vestito un po’ meglio che nelle altre occasioni, magari sfoggia un clergyman e una stola al posto dei soliti jeans e maglione (ricordate quando i jeans erano trasgressivi? ma questa è un’altra storia); si fa il giro del piazzale antistante la chiesa, si intonano due o tre canzoni ed è fatta. Una cosa un po’ artigianale, come dicevo, e di sicuro tale sarebbe sembrata agli occhi di parroci e parrocchiani che organizzavano le processioni della mia infanzia.

La prima cosa a essere ritenuta necessaria in tali occasioni era la banda, e nessun paese ne era sprovvisto. Anche I boy scout erano anche richiesti; nell’Italia del dopo guerra davano un tocco di modernità ed esterofilia. Pur essendo un’istituzione di origine laica, nel nostro paese si era sviluppata all’ombra delle parrocchie, perciò via pure loro! in divisa.

Accanto a quelle divise, i membri dell’Azione Cattolica avevano un’aria senz’altro meno romantica ma si presentavano in massa.

Non mancavano i bimbi della Prima Comunione, accompagnati e controllati dalla comunità delle suore locali. I maschietti erano un po’ seccati e turbolenti, ma le femminucce erano partecipanti entusiaste: l’occasione permetteva loro di indossare legittimamente l’abito della cerimonia dell’Eucaristia e non ce ne sarebbero state altre. L’anno successivo altre piccole sarebbero state le nuove comunicande e il vestito in ogni caso non sarebbe stato più portabile, data la rapida crescita degli anni delle elementari.

Venivano poi statue varie di Madonne e Santi che oscillavano più o meno violentemente a seconda della robustezza di coloro che le portavano a spalla, quindi labari, gagliardetti e gonfaloni di confraternite ed associazioni.

Finalmente arrivava il sacerdote. In realtà arrivava un baldacchino in damasco sorretto ai quattro angoli da fabbricieri della parrocchia in guanti bianchi; sotto a questo, il prete ammantato nello stesso broccato o a volte in uno diverso, sosteneva l’ostensorio dorato nel quale era riposta l’Ostia consacrata. A dire la verità l’ostensorio quasi non si vedeva, perché una stola copriva le spalle e la testa del parroco e si chiudeva sopra il sacro oggetto.

Al seguito vi erano poi le autorità locali, i Carabinieri e infine i normali cittadini, e qui bisogna soffermarsi.

Uomini e donne portavano i loro abiti buoni, ma se un uomo in giacca e cravatta era a posto, questo non valeva per le signore: un vestito decente non bastava, per loro l’esigenza era quella di un abito nuovo! Con buona pace delle Lady inglesi, che non ritenevano portabili vestiti che non avessero un aspetto un po’ usurato, l’abito per la processione doveva scrocchiare e non essere mai stato visto prima.

All’epoca, quasi tutte le donne sapevano confezionare un più o meno semplice abitino e quindi la maggior parte di loro si limitava a comperare della stoffa e un cartamodello e a mettersi all’opera, ma quelle che passavano per dame alla moda non potevano indossare una cosa fatta in casa e perciò, essendo il pret-a-porter ancora di là da venire, era tutto un correre a prenotare dalla sarta. Lo si faceva anche mesi prima, e le ritardatarie correvano il rischio di essere lasciate fuori. Allora bisognava o genuflettersi alla cucitrice di turno invocandone i favori o inventarsi una malattia per restare a casa. Alla processione con qualcosa già indossato, mai!

Al paese della mia infanzia, l’isola di Murano, quella del vetro, vi erano due parrocchie: quella dei Santi Maria e Donato, una splendida chiesa romanica più o meno coeva alla Basilica di San Marco, e quella di San Pietro comunemente detta Rio e non so perché; quindi due processioni che avvenivano in occasione di due festività: quella del Sangue prezioso e quella del Corpus Domini.

Non saprei dire quale fosse dell’una o quale dell’altra, in ogni caso cadevano entrambe attorno a giugno e quindi erano l’occasione di sfoggiare il più bel vestito estivo.

Le due parrocchie erano rivali da sempre (mi dicono che ora un solo parroco le regga entrambe e chissà come se la caverà) per cui, in genere, chi era nato in Rio partecipava all’evento in Rio ignorando quello di San Donà e viceversa. Il problema era per chi, nato da una parte, si trasferiva nell’altra e magari vi aveva figli. A quale cerimonia partecipare?

Mia mamma l’aveva risolta così: a San Donato, dove abitava, accompagnava noi bimbe che lì avevamo fatto la Prima Comunione, seguito il Catechismo e partecipato all’Azione Cattolica, ma tenendosi un po’ in disparte, elegante come sempre, ma non in pompa magna. In Rio invece, dove era nata, prendeva parte al ricevimento di una famiglia amica, il cui palazzetto sporgeva sulla riva percorsa dal corteo, e affacciata a uno dei balconi riceveva la Benedizione, naturalmente abbigliata nel massimo del suo fulgore, cosa che le veniva anche bene, essendo una bellissima donna.

A San Donato noi bambine portavamo il vestito della domenica, in Rio venivamo abbigliate in pizzi e gale e guai sporcarsi o giocare. Mio padre non seguiva alcuna processione, ed evitava anche il rinfresco delle amiche di mamma, trovando ogni anno una scusa nuova; tra l’altro non doveva nemmeno sforzarsi tanto, perché mamma sapeva che non amava partecipare. Seppur di origini muranesi era nato a Grandate, e quando poteva andava alla Madonna di Settembre, festa di quel luogo.

Io e mia sorella invece al trattenimento non potevamo sottrarci, e a me – a dire il vero – non sarebbe nemmeno dispiaciuto: amavo indossare il vestito bello, mi piaceva l’ampio salone lucido che finiva sul balcone di pietra d’Istria, amavo i pasticcini, poi all’epoca delle medie trovavo anche affascinante un certo porta gagliardetto dei boyscout; mi era gradito anche il momento solenne della Benedizione, quando tutto si faceva silenzio, l’odore dell’incenso andava per l’aria e le parole del Sacerdote arrivavano solenni dal basso, mentre tutti chinavano la testa e si segnavano. C’era un solo un problema.

La casa dove eravamo invitate apparteneva a cinque sorelle conoscenti da sempre della mamma: due sposate, due zitelle ed una vedova; tutte di mezza età e dal mio punto di vista di allora apparentemente innocue, se non fosse stato che avevano un madre: la zia Argenide.

E già il nome… ma la faccenda era più grave. La vecchietta era una specie di statua di cera, con una pelle pallida, pallida, senza macchie di età o altro ad alterarne il colorito, capelli bianchi raccolti a chignon, pochi e sottili, un vestito informe e scuro e dei terrificanti occhialini rotondi con le lenti blu, perché aveva problemi agli occhi.

In realtà, pensandoci adesso, era linda e pulita e aveva anche un buon profumo di borotalco, ma per me era terrificante, perché era la cosa più vicina a un cadavere che avessi visto fino ad allora e non intendevo avvicinarla.

Tuttavia era vecchia ed era la padrona di casa, perciò mia madre non mi avrebbe mai permesso di accostarmi ai pasticcini o di andare sul balcone ad aspettare il boyscout se prima non avessi riverito la Zia Argenide che, seduta sotto al lampadario di cristallo, chiaramente se lo aspettava.

 Non ci vedeva, dicevano, ma quelle lenti blu mi seguivano da quando varcavo la soglia del salone a quando finalmente espletavo il mio dovere.

E se si fosse trattato solo di salutare, si poteva anche fare, ma no! la zia Argenide andava baciata, e su quella guancia bianca e fredda su cui cadeva l’ombra degli occhiali blu! Non ho mai dimenticato la beccatina veloce che le davo e la fuga che prendevo subito dopo, lasciando mia madre a mormorare frasi come:

- E’ sempre così vivace… Sa a quell’età.

Ma io credo che dietro ai vetri blu la Zia Argenide abbia sempre saputo cosa pensavo e si sia goduta tutto il suo momento di tirannia, anno dopo anno.

In questi anni di week end e di Festa della salamella, chi organizzerebbe un vero ricevimento pomeridiano per una processione? Chi tirerebbe fuori bicchieri di cristallo e salviette di lino in attesa di veder sfilare sotto casa la gente che incontra tutti i giorni?

Bene? Male? Non lo so.

Quel solenne chinare di teste all’elevarsi dell’ostensorio aveva una dimensione che amo ancora oggi, una sentimento di trascendenza che oggi manca. In fondo l’ospite d’onore era proprio Quello che passava in strada.

Bruna Mainardi

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