La Libertà attraverso i testi della tradizione

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Nel 1972 era Giorgio Gaber, il “Signor G”, a cantare “Vorrei essere libero, libero come un uomo”. Il titolo del brano era, appunto, “La libertà”. Una ballata a sfondo politico che potrebbe essere portata a esempio; forse soltanto uno dei più recenti nella Storia del genere umano, che si è sempre battuto per i propri diritti, contro ogni forma di oscurantismo. Questa, così come la realtà nella quale abbiamo la fortuna di vivere, è la Storia di Uomo libero di pensare, esprimersi, decidere. Senza alcuna costrizione, privo di ogni forma di restrizione.

Libertà è sinonimo di emancipazione, indipendenza e autonomia: progresso e civilizzazione. Un diritto inalienabile che, però, tutt’oggi, nonostante i due millenni che portiamo sulle spalle, in alcune parti del pianeta è pura utopia. La libertà nasce dai piccoli gesti, dalle azioni quotidiane, passando per la religione, gli orientamenti politici, per usi e costumi. La condizione di un libero individuo è senza dubbio il sommo bene da desiderare. E’ paradossalmente complesso, quindi, parlare di libertà senza scadere nella banalità e nel qualunquismo. La libertà costituisce una tematica molto dibattuta, sin dalle epoche più antiche: era lo stesso Cicerone a scrivere nel suo De Re Publica che “la libertà non consiste nell’avere un buon padrone, ma nel non averne affatto”.

Tanti gli eroi che, nella Storia che conta, si sono battuti, a volte pur sacrificando la propria esistenza, per il più grande, e allo stesso tempo il più ovvio, dei diritti. Nella tradizione e nell’immaginario artistico-letterario gli episodi legati a questo “topos” sono innumerevoli. Passando all’analisi di alcuni documenti, possiamo scorgere un concreto sentimento di libertà legato al valore di Patria. Già nei poemi omerici (Iliade, libro VI), quando Ettore, che si accinge a sfidare il divino Achille, si rivolge alla consorte Andromaca: l’eroe troiano si dice timoroso dello “spregio” della propria gente se codardamente evitasse il duello, che si sarebbe rivelato fatale. E’ il ruolo sociale a imporglielo, a difesa della gloria familiare, seppur consapevole di una prossima disfatta per la città e per i Teucri. Spera, quindi, di trovare ristoro nella morte prima di dover assistere alla sorte di schiava di guerra che toccherà ad Andromaca. Un duello, dall’esito già segnato dal fato, che Ettore, da valoroso principe, deve tentare per continuare a credere nella libertà del proprio popolo. Nel canto I del Purgatorio dantesco (vv. 70-75) è Virgilio, guida al viaggio del Poeta, a rivolgersi a Catone Uticense, custode della cantica. L’autore dell’Eneide invita Catone a consentire al Poeta la salita al monte del Purgatorio, presentando Dante come cercatore di libertà, sottolineando come questa sia “sì cara”. Chiaro il riferimento e la captatio benevolentiae che Virgilio rivolge all’Uticense: quest’ultimo sa quanto la libertà sia cara, poiché egli stesso, dopo la sconfitta di Pompeo Magno, si tolse la vita a Utica prima di cadere nelle mani delle truppe cesariane che lo braccavano. Un gesto estremo, a conferma della libertà dei propri ideali, che salverà Catone dalle pene infernali (i suicidi sono, infatti, da Dante collocati nel tredicesimo canto dell’Inferno, per aver rifiutato e disprezzato il dono divino della vita). L’Uticense viene, così, assolto e giustificato dal sommo Poeta, che reputa quasi onorevole il gesto di Catone, tanto da aver reso a questo meno amara la morte. La questione può essere risolta con una nobile giustificazione al gesto di Catone: la difesa del libero arbitrio, la forma principale di libertà personale.

Un secolo più tardi, Niccolò Machiavelli esorta a liberare l’Italia dalle mani dei barbari (Il Principe, XXVI). Una realtà “battuta, spogliata, lacera, corsa, et avessi sopportato d’ogni sorte ruina”. L’Italia necessita di un capo, che riporti l’ordine e sani le proprie ferite, inflitte dai saccheggi dei barbari. Una figura autorevole che la prenda sotto il proprio comando e la riunisca sotto una bandiera. Anche questa è una forma di libertà: dagli invasori e per il bene dello Stato.

Giungiamo, quindi, al Manzoni con “Marzo 1821” (vv. 41-64). Un’ode scritta a cavallo dell’esplosione dei moti carbonari piemontesi che, determinando l’instabilità politica, costrinsero Carlo Alberto a concedere la Costituzione e spianarono la strada ai Savoia per la liberazione del Lombardo-Veneto dall’invasore austriaco. Rivolgendosi agli stranieri, Manzoni condanna le loro ingiustizie e l’obbrobrio, che svetta sui loro stendardi, causato dal tradimento del giuramento di rispettare il principio di nazionalità. Nella speranza che torni l’Italia e che gli invasori strappino le tende da una terra che non gli è madre, alla vista di un Paese che “si scote e vacilla” sotto il piede nemico, Dio rigetta la forza straniera e, ascoltando le preghiere e i lamenti delle genti, le renderà libere e lungi dalla guerra.

Nel 1830 Eugène Delacroix dipinge l’indimenticabile “Libertà che guida il popolo”: il pittore romantico francese, che aveva preso parte ai moti di Parigi dalla parte degli insorti, non avendo potuto vincere per la Patria, decide di dipingere per essa. La scena è quella di una barricata, con i parigini che marciano e si fanno largo tra i caduti, lasciandosi guidare da una donna a seno scoperto con in mano un fucile e sventolante il tricolore. Popolo e borghesia, con tanto di cilindro in testa, seguono la donna con il berretto frigio. Il senso plastico delle figure e l’estrema drammaticità della scena mettono in risalto l’intensità psicologica degli insorti. Sullo sfondo si intravedono i palazzi della città, tra incendi e i fumi delle sparatorie. La Libertà è Donna, simbolo di un’identità nazionale ritrovata, foriera di valori rivoluzionari.

Alla fine dell’Ottocento, Giovanni Vega scrive “La Libertà”, tratta dalla raccolta “Novelle Rusticane”. Vengono narrati i fatti di Bronte, avvenuti tra il 2 e il 10 agosto 1860, all’arrivo di Garibaldi e dei Mille, con la promessa di un’equa spartizione delle terre demaniali per risolvere il problema del latifondo in mano ai galantuomini del paese. Una momentanea illusione di libertà e progresso: sventolava il tricolore dal campanile e suonavano le campane. I moti di Bronte diedero vita ad una sanguinaria sommossa popolare, sedata, in seguito, con la repressione da parte di Nino Bixio. Di fronte i luoghi cardine del paese (il Municipio e la Chiesa) la folla di “berrette bianche” con falci e scuri. Un barone viene aggredito e sono vendicate le soverchierie messe in atto da questo; lo stesso vale per un prete, per un ricco epulone (“grasso del sangue dei poveri”), per uno sbirro (che ha fatto giustizia soltanto con gli indigenti) e per un guardaboschi. La folla, ebbra di sangue, assale i “cappelli” (i galantuomini) con falci, cenci e sassi. Alla visione dei campi, delle pianure e dei boschi sui versanti dell’Etna, ognuno già calcolava con le dita la propria porzione di terra, contesa con il prossimo. Libertà: da un sistema gerarchico e amministrativo retrogrado, ma che implicava un prezzo da pagare. Per tutti.

Nel secolo scorso, il Premio Nobel per la letteratura nel ’59, Salvatore Quasimodo, scrive “Alle fronde dei salici”, al tramonto del secondo conflitto mondiale. La violenza generata dall’invasione nazista e dall’esperienza fascista fanno sentire al poeta “un piede straniero sopra il cuore”. Morte e disperazione sullo scenario: cadaveri nelle piazze, sull’erba ghiacciata. I gemiti dei fanciulli risuonano e una madre va incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo. Una libertà perduta: il poeta appende, per voto, alle fronde dei salici la cetra, che oscilla al vento. Il ritratto di una realtà oppressiva e illiberale. Poco più di un decennio dopo, il pastore protestante e attivista Martin Luther King pronunciava al Lincoln Memorial di Washington, in quel 28 agosto ’63, il celebre discorso con il quale presentava il proprio sogno: “che un giorno questa nazione si sollevi e viva pienamente il vero significato del suo credo; riteniamo queste verità di per se evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali”. Portò una luce di speranza, aggiungendo un mattone al compimento della lotta al razzismo. Condannava la violenza fratricida tra bianchi e neri, proponendo metodi alternativi all’odio e al risentimento per mandare un segnale in opposizione all’ignoranza.

Straordinaria dignità e forza d’animo, contrapposte a due destini uguali, ma separati, che legano i bianchi alle “coloured people”. Perché a qualcuno la libertà dovrebbe essere negata? Martin Luther King è uno dei tanti che hanno pagato con la vita per la propria speranza e per il proprio impegno. Uno dell’ampia schiera di Eroi e di Martiri, pionieri del Progresso. Norberto Bobbio scriveva: “Vi sono tante cose che crollano e meritano di cadere per sempre. Ma permettetemi di dire che tra le cose che crollano quella che lascia il vuoto più grande, e forse irreparabile, è lo spirito di libertà”. Ancora una volta, così come nell’incipit, richiamo alla memoria le parole di GG: “Libertà è partecipazione”. Sì, partecipare dà il diritto di essere liberi. Per non ritrovarsi, oggi o domani, a ripetere gli stessi errori di un tempo.

 

“L’uomo è nato libero e dappertutto è in catene. Persino chi si crede il padrone degli altri non è meno schiavo di costoro. Come si è prodotto questo mutamento? Lo ignoro. Che cosa lo può rendere legittimo? Credo di poter rispondere a questa domanda. Se considerassi soltanto la forza, e l’effetto che ne deriva, direi: fino a che un popolo è costretto ad obbedire e obbedisce, fa bene; non appena può scuotere il giogo e lo scuote, fa ancor meglio; poiché, riacquistando la propria libertà in base al medesimo diritto in base al quale gli è stata tolta, o è legittimato a riprendersela ovvero non si era legittimati a togliergliela. Ma l’ordine sociale è un diritto sacro, che serve di fondamento a tutti gli altri. Tuttavia questo diritto non viene dalla natura; esso è dunque fondato su convenzioni. Si tratta di sapere quali siano queste convenzioni…”- Jean-Jacques Rousseau

Marco Fallanca

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