Architettura madre delle Arti

Posted by on Jan 28th, 2013 and filed under Cultura. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0. Both comments and pings are currently closed.

“Se l’Architettura è la madre delle Arti, l’Italia è la madre delle madri”. “L’Italia rimane la patria spirituale dell’architettura. È qui che si può comprendere pienamente l’importanza dell’edificio non come spettacolo individuale, bensì come manifestazione di valori collettivi e scenario di vita quotidiana”. 

Il lavoro dell’architetto è estremamente difficile perché richiede capacità di lettura e interpretazione delle esigenze di una società in continua evoluzione. Inoltre, il processo che porta alla realizzazione di un edificio è estremamente complesso e si frammenta nelle decisioni di diversi individui ed istituzioni.

La riuscita di un progetto, al di là della sua qualità intrinseca, è dunque strettamente legata al contesto in cui si sviluppa e dipende dalla convergenza degli sforzi e dall’unitarietà degli obiettivi di tutti gli attori coinvolti: ciò vale tanto alla scala architettonica quanto alla scala urbana.

È evidente che quando questo non avviene, si generano quei vuoti urbani che troppo spesso, negli ultimi tempi, si è cercato di colmare invocando la “perfomance dell’archistar”, a cui si chiede di rimediare al danno con gesti eclatanti.

La società è talmente assuefatta a questo meccanismo da aver dissociato l’architettura dal suo ruolo principale, cioè quello di organizzare lo spazio in cui viviamo, per riconoscerla solo nell’evento episodico del grande museo, della banca, del lussuoso hotel.

Un divario tra il contributo che l’architetto dà (o dovrebbe dare) alla società e la mancata percezione di tale contributo da parte della società che in questi ultimi anni è diventato abissale e quindi da colmare. Di qui l’invito agli architetti a raccontare di sé e del proprio lavoro, per cui spesso si organizzano mostre anche permanenti (una di queste che ho visitato si trova ospitata alla villa di Ragusa Ibla) o visionabili alla Biennale Architettura di Venezia, l’ultima delle quali risale ad agosto/settembre del 2012.

Al di là dello sforzo didattico – divulgativo, che cerca di avvicinare il pubblico più vasto alle problematiche della professione per formare – responsabilizzandoli – i cittadini di domani, l’invito diventa per il mondo dell’architettura un’occasione per tornare a riconsiderare le ragioni primitive dell’architettura: cos’è? A cosa serve? A chi è diretta?

Dall’ultima Biennale le risposte più convincenti sono arrivate dal Giappone e dal raggruppamento inglese-venezuelano Urban Think Tank.

Il Giappone racconta la desolazione post-tsunami e la determinazione a ricostruire, attraverso l’architettura, il tessuto sociale fortemente compromesso dalla violenza della devastazione: tra foto, modelli e video le fasi di ideazione e realizzazione del progetto “Casa di Tutti” frutto della collaborazione con tre emergenti architetti giapponesi e con la popolazione sfollata, che si pone come “tentativo di offrire uno spazio d’incontro e distensione a coloro che avevano perso la casa con lo tsunami”.
La Torre David / Gran Horizonte di Justin McGuirk e Iwan Baan e Urban-Think Tank (Alfredo Brillenbourg, Hubert Klumpner) invece inverte la prospettiva, partendo da un esempio di fallimento urbano a Caracas – una struttura in calcestruzzo, resto di un palazzo per uffici di 45 piani mai completato – rigenerato da un fenomeno di appropriazione spontanea da parte di persone altrimenti destinate ai barrios di Caracas.

L’installazione “registra la cultura che si è sviluppata in questo luogo, portando un ristorante venezuelano chiamato Gran Horizonte all’Arsenale, come simbolo della vita pubblica di Caracas” nella convinzione che “la condivisione di un pasto sia il modo migliore per stabilire un terreno comune per una discussione”.

Ciò porta alla riflessione sulla forma e i contenuti dell’architettura, per indagare sulle possibili qualità dello spazio in quanto materia prima. Confinati gli eccessi architettonici del recente passato ad una fase storica destinata a concludersi, si richiama l’interesse per gli aspetti più concreti della disciplina e della professione, che costituiscono il terreno condiviso da cui partire per superare la profonda crisi d’identità in cui versa l’architettura contemporanea, analizzando il binomio opera d’arte e spazio fisico.
Solo dieci anni fa l’ipotesi che potesse esistere un terreno comune di scambio tra arti visive e architettura era vista ancora con timore e sospetto, come se il solo contatto di un ambito espressivo con l’altro potesse in qualche modo indebolire o, addirittura, nuocere alle già precarie condizioni strutturali delle singole discipline e dell’architettura in particolare. Non vi erano contributi critici specifici che affrontassero questo tema in maniera diretta e sufficientemente ampia e mancava un aggiornamento dei numerosi e importantissimi studi che avevano messo in luce i rapporti esistenti tra le avanguardie artistiche e il movimento moderno nei primi decenni del ’900. Una seria riflessione sulla natura di tali rapporti e, soprattutto, sui possibili riflessi di carattere teorico e metodologico su questa disciplina appare necessaria. Da un lato, vi è chi ritiene che l’architettura – come d’altronde le altre arti – abbia ormai superato i propri confini disciplinari, perdendo molto della sua specificità e confondendosi con altre manifestazioni dell’espressività umana. Germano Celant, curatore di una mostra di Genova sul tema, parte dall’idea che nel suo passaggio dal funzionalismo al formalismo puro l’architettura diventa arte, perché passa dal dover essere al piacere di essere.

Dall’altro vi è chi ritiene pericoloso, per le sorti della disciplina, anche solo ipotizzare l’esistenza di tali rapporti e pensa che l’architettura che “si fa arte” produca una degenerazione dei principi fondativi del lavoro dell’architetto e delle sue finalità, in una sorta di contaminazione destabilizzante che crea confusioni ed immaginarie proiezioni artistico-architettoniche non funzionali al ruolo dell’architettura.

Ma le due posizioni a confronto non portano ad una soluzione dell’enigma, perché eliminano, lo spazio dialettico del confronto; la prima, sovrapponendo per un eccesso di uniformazione ambiti operativi diversi, tende ad annullare le differenze e a confondere metodologie e, appunto, finalità; la seconda, negando qualsiasi area di interferenza, tende a non vedere i numerosissimi segnali di contaminazione, più o meno espliciti, tra arte e architettura.
Per comprendere molti dei fenomeni e delle tendenze architettoniche oggi in atto, è consigliabile ed indispensabile allentare le maglie strette dell’autonomia disciplinare, soprattutto se l’interesse è rivolto a quelli che potremmo definire i “materiali espressivi” che entrano in gioco nella fase ideativa dell’opera in oggetto. Andare a perlustrare territori di confine, cambiare i propri punti di vista ed indirizzare il nostro centro a voli liberi, può creare le basi di comprensione tra due settori fortemente influenzabili. A tal proposito Manfredo Tafuri, nel noto libro “La sfera e il labirinto” del 1980 scriveva: “Fin troppo spesso scandagliando ciò che è ai margini di un problema dato, vengono offerte le chiavi più produttive” per capire ed affrontare quello stesso problema.

Venendo a oggi e al tema più generale, a proposito del ruolo dell’architettura nella costruzione dei nuovi paesaggi urbani, va registrato un importante dato di partenza: anche se non ovunque e non sempre con conseguenze positive, sempre più spesso l’architettura è chiamata a diventare un simbolo per le città che la ospitano. Dopo anni di relativa ‘invisibilità’, l’oggetto architettonico sta riconquistando la scena, potenziando la propria immagine e re-inventandosi come monumento attorno al quale costruire identità e riconoscibilità.

 tal fine l’architettura si confronta inevitabilmente con una serie di altre forme della visualità a cui contendere la scena: dal design alla moda, dalla pubblicità alla fotografia, dalle istallazioni alle performances, ambiti espressivi che proprio con la città spesso interagiscono direttamente.

È un fenomeno, questo, complesso e contraddittorio, anche perché viene alimentato da istanze non solo interne, ma anche eteronome e non sempre sane, spinte soprattutto da logiche di profitto dell’economia, perdendo molto dell’artisticità pura e trasparente.

Quale tipo di monumentalità è, allora, quella contemporanea e quale ruolo ha l’architettura all’interno dei paesaggi urbani contemporanei? Il monumento contemporaneo spesso non dialoga più con la città, che a sua volta non è più un corpo compatto; s’ impone ad essa, si fa spazio, conquista la scena, non più utilizzando la città come supporto, ma cercando di emergere dalla difformità confusa che la caratterizza. Nella realtà urbana delle città asiatiche, ad esempio, architetture totalmente autoreferenziali si contendono un territorio ormai snaturato e privo di identità; ogni architettura urla contro quella vicina, tentando di soverchiarla, senza che l’insieme raggiunga la grandezza della battaglia, ma solo quella sconquassata competizione pubblicitaria. In tutto questo emerge un rapporto architettura-città in crisi, sdoppiato in una incompatibilità tra la parte e il tutto che è frutto della sempre più marcata difficoltà dell’architetto ad interpretare la complessità di contesti disomogenei, caotici, disgregati, ma anche, in parte, della mancanza di interesse per questo tipo di dialettica, che è letta come utopica e fuori dalla portata dell’architettura.

Paradossalmente, però, questo segno di volubilità diventa, nei casi migliori, un connotato di forza. Le architetture non presentano più, un punto di vista relativo e parziale sul mondo, ma cercano di rappresentare il mondo stesso. Non sono più una parte del tutto, ma ci propongono un tutto compiuto, finito, autosufficiente in cui la nuova frontiera dell’architettura spesso diventa baluardo di nuove frontiere avveniristiche. Si veda ad esempio la nuova Dubai negli Emirati Arabi, in cui modernità e spirito innovativo hanno creato dei modelli futuri architettonici, unendo spesso i decori rinascimentali rivisitati con i colori forti e decisi dell’arte fauve, con interessanti quanto mai soluzioni mediate tra l’arte e l’architettura spinta sino al parossismo creativo.

Quelli che invece vediamo sorgere sempre più spesso nelle nostre città sono: o edifici intesi come piccole città, contenitori dal forte potere attrattivo, che tentano di riprodurre la complessità della metropoli e che già da fuori promettono esperienze estetiche e sensorie di grande intensità o edifici come grandi oggetti d’uso, ingigantiti, in modo che l’uomo possa abitarci e navigarci dentro come in un “viaggio sul futuro”.
Di fronte a edifici non edifici, a città che diventano manufatti da abitare, l’uomo perde la misura, vive in un mondo fuori scala, in cui non è più un fruitore, né tanto meno un semplice utilizzatore, ma diventa uno spettatore, meglio se sbalordito.

Infine, l’opera d’architettura che aspira ad imporsi come un monumento sceglie spesso, paradossalmente, nuovi linguaggi, meglio se non perfettamente comprensibili. Per incrementare la sua aura e il suo fascino, l’architettura gioca sulla sempre minore evidenza delle sue procedure. I mezzi, gli strumenti e i materiali dell’espressività contemporanea sono sempre più dominati dalla tecnologia e dall’informatica, le cui logiche intrinseche spesso invadono il campo dei significati oltre che quello dei significanti. La tecnologia e la tecnica costruttiva, che nella prima modernità spesso puntavano a manifestarsi, oggi si celano o diventano ambigui, per colpire, incuriosire, stupire. L’architettura in questo senso si avvicina moltissimo al design dell’oggetto tecnologico che, da un lato, ha un’interfaccia accattivante e, dall’altro, un sub-strato assolutamente inesplorabile.

Oggi nel vedere molte architetture “straordinarie” si rimane sinceramente stupefatti, tanto stupefatti da riuscire a chiedersi soltanto come si ottengano certi risultati. Il problema allora è fare in modo che questa sensazione di straniamento ridiventi coscienza e che una semplice strategia estetica ridiventi una ricerca, fondata magari su una gestazione più lunga di un’opera d’arte.

Vorrei in ultimo analizzare le opere a Gibellina, dopo il rovinoso terremoto che la distrusse. Dopo il sisma, perduta ogni cosa, molti andarono via: Australia, Stati Uniti, Nord Italia. Due anni dopo, nonostante le promesse, la gente di Gibellina era ancora nelle baracche, ad ammalarsi e perire per il freddo e l’umidità. Leonardo Sciascia, Carlo Levi, Renato Guttuso, insieme a Zavattini, Caruso, Treccani, Cagli, Damiani, Zavoli scrissero in un appello. A quell’appello risposero solo intellettuali ed artisti.

La veglia tra le macerie del vecchio abitato fu uno dei momenti più importanti per la rinascita della comunità gibellinese e per il Belice.

Le popolazioni dei paesi colpiti, guidate principalmente dai sindaci di Gibellina e Santa Ninfa, si opposero con tutte le loro forze a quella situazione, si recarono in massa a Palermo e a Roma finché non iniziarono ad ottenere quel che gli spettava, tanto che nel 1988 un giornalista poté scrivere: “La gente del Belice ha dato vita al più grande movimento unitario di lotta che il mezzogiorno abbia mai avuto”.

La prima scelta importante fu quella di collocare il paese in un sito completamente nuovo, a 15 km di distanza e dall’altro lato del colle. Il sindaco di Gibellina eletto dopo il sisma elezioni municipali, riuscì, dopo lunghi ed intensi dibattiti in consiglio comunale, a far ricostruire il paese in una posizione strategica nei confronti delle reti infrastrutturali, a lato della stazione ferroviaria di Salemi, di fronte all’autostrada A29 che collega Palermo a Mazzara del Vallo. Gibellina è stata la terra della nostra servitù, sia questa la terra della nostra libertà. Posiamo qui tutto il nostro passato, perché questo sia un giorno di vita, furono le parole pronunciate il giorno dell’occupazione dei terreni di Salinella. L’altra idea guida era quella di fare di Gibellina un laboratorio artistico all’aria aperta. L’arte avrebbe dovuto aiutare a creare in quel luogo ancora privo di storia per la comunità, un nuovo patrimonio culturale condiviso, una memoria visiva dei luoghi, i segni distintivi del tessuto urbano- come scrive Marcello Fabbri – sul quale si collocassero nuovi ricordi, per una collettività alla quale memoria e identità erano state rase al suolo, fisicamente e psicologicamente.

Nino Soldano, famoso gallerista siciliano, donò immediatamente alla città 200 opere d’arte, che oggi costituiscono il nucleo del Museo Civico ed una collezione di gran valore. Sulla scia di questa donazione, tantissimi artisti iniziarono a donare dipinti e sculture.

In breve tempo il Museo Civico si riempì di un numero di opere il cui valore sarebbe stato sufficiente a ricostruire nuovamente il paese.

Credo che l’insieme delle opere di cui il paese si è dotato costituiscano di per sé buona parte del patrimonio storico e culturale di quella comunità, perché in esse si identificano e rappresentano la solidarietà e la caparbietà che hanno ricostruito dal nulla le fondamenta di un’intera comunità sradicata. La storia che lega Gibellina alle sue opere d’arte (donazioni, acquisizioni, attrezzature) è per sempre vincolata alla storia delle persone che l’hanno ricostruita.

Commentava Pietro Consagra che non solo i gibellinesi sono in qualche modo perplessi, lo sono soprattutto quelli che pensano che una città in Sicilia non può permettersi tanto lusso da adornarsi con grandi opere di artisti notissimi: … Gibellina è riuscita dove nessun’altra città ha saputo mirare, ha ottenuto attenzione come una provocazione mentre in verità l’intento è stato quello di fare fronte a una necessità individuale e irresistibile: legarsi alla creatività continua dell’arte che esprime fiducia … vivere la sensazione spirituale che proviene dall’ornamento come aiuto a stare al mondo. Due fazioni si scontrano da tempo sull’argomento: da una parte i denigratori dell’esperienza gibellinese, e dall’altra gli esaltatori della stessa, giustificata come rivincita incompiuta dell’arte, e del suo valore trascendente e salvifico. Alcuni luoghi comuni sono utilizzati come punti di partenza delle critiche: il disagio degli abitanti tra tante opere d’arte e altrettanta disoccupazione, il crollo della chiesa madre, prima ancora della sua inaugurazione. Negli anni seguenti sui quotidiani apparvero titoli scandalistici su presunti saccheggi o sprechi di denaro.

Diceva Damiano Damiani: …Gibellina è soprattutto un luogo dove la popolazione intera, aiutata dalla mediazione e dalla volontà del Sindaco, ha imparato il significato di parole come impegno civile e partecipazione decisionale … Elettrificazione, fognature, scuole, ospedale sono basilari, ma non meno basilare è l’apertura delle porte culturali.

Il 16 luglio del 2005 moriva Pietro Consagra, sicuramente colui che maggior lascito in opere d’arte ha concesso alla nuova città. Mazarese di nascita, ha chiesto prima di morire di essere sepolto a Gibellina.
In questi casi si tende a idealizzare l’evento, ma di certo i gibellinesi guarderanno e percepiranno già diversamente le opere di un uomo che 37 anni fa tornò in Sicilia per un’idea, per aiutarli in un compito difficilissimo e che alla fine ha scelto di essere seppellito in mezzo a loro. Non so se sia semplicemente questo il compito assegnato all’arte, sostenerci e tenerci vigili durante il lungo e periglioso viaggio che è la nostra storia, né se possa in fin dei conti avere un fine più alto. La storia recente di Gibellina mi sembra però un’inoppugnabile testimonianza di ciò, e insieme anche della compassione di alcuni uomini (quindi di tutti) per se stessi e per i propri simili, oltreché la riflessione che alcune opere d’arte possono essere pensate per luoghi e fini speciali e specifici, altrimenti non determinanti in altri luoghi e che la storia speso decida sul corso di opere realizzate da uomini per uomini.

Il fruitore, infatti, contribuisce con la sua conoscenza, la sua cultura e le sue emozioni a dare un senso compiuto all’opera ed in particolare al suo adeguato inserimento in un particolare contesto ambientale. Un progetto complesso che parte dalle opere e dallo spazio architettonico e che diviene capace di incidere e di costruire un evento fruitivo destinato all’uomo, che incide sulla sua sensibilità, la sua memoria, e lo stimola a confrontarsi con il mondo e gli altri uomini.

Prof.ssa Maria Tripoli

 

 

 

 

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